Filosofia - Il confucianesimo

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    Il confucianesimo, in filosofia, è il complesso di dottrine filosofiche, etiche e politiche della Cina classica, detto anche "scuola dei letterati" (ju-chia). Di tale scuola, Confucio non è considerato, né mai pretese di essere, l'iniziatore; egli ne fu piuttosto il sistematore: infatti, la concezione del mondo e dei rapporti sociali cui fa riferimento si era venuta formando in Cina sin dalla più remota antichità. A Confucio e alla sua scuola va riconosciuto il merito di aver fissato il canone dei classici sui quali si basò tutta la speculazione dei secoli successivi a partire dall'epoca della dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.), quando il confucianesimo (messo al bando nel 213 a.C.) divenne dottrina ufficiale dello stato. Sebbene il pensiero e l'insegnamento di Confucio fossero alieni da ogni metafisica, agli inizi dell'epoca Han il culto che gli venne tributato assunse carattere religioso e il maestro, fino ad allora considerato modello dei retti funzionari, fu innalzato al ruolo di santo protettore della classe burocratica e definito "essere divino".
    Dopo pochi decenni si tornò alla dizione di "santo antico maestro che diffonde la cultura", e i luoghi in cui si celebravano le funzioni in suo onore si chiamarono "templi della cultura", con officianti laici, letterati-funzionari (al confucianesimo è sempre stata estranea l'idea di una classe sacerdotale simbolo di potere distinto da quello politico). Sin dall'inizio della nostra era, dunque, il confucianesimo assunse il carattere precipuo di ideologia: esso è l'ideologia che ha permesso e sostenuto la formazione e il perpetuarsi dello stato burocratico centralizzato, dal momento che, sia nel microcosmo della famiglia sia nel macrocosmo dello stato, esso privilegia il principio gerarchico e aborrisce da ogni turbamento dell'ordine costituito, che intende preservare con la pratica delle virtù.
    Garanzia di conservazione e di stabilità è l'osservanza dei riti, un minuzioso e inderogabile insieme di regole di comportamento la cui funziona è di impedire che si verifichino alterazioni nella corrispondenza tra cosmo e individuo, tra mondo della natura e mondo morale. Dovere primo dell'uomo è praticare le due virtù fondamentali, la rettitudine e la benevolenza o umanità, virtù eminentemente sociali, "pubbliche", che implicano una completa partecipazione alla vita mondana. A base della società viene posta la famiglia, e lo stato viene concepito come una grande famiglia (l'imperatore è infatti definito "padre e madre" dei suoi sudditi). I tipi di relazioni sociali ai quali per analogia si possono rapportare tutti gli altri sono cinque: la relazione tra sovrano e suddito; tra padre e figlio; tra fratello maggiore e fratello minore; tra marito e moglie; tra amico e amico. Esse non sono mai relazioni paritarie, ma sempre tra superiore e inferiore (anche nell'ultima, si distingue tra amico più anziano e amico più giovane).
    Nonostante questa impostazione gerarchica e ritualistica della società, in cui risulta limitata ogni libertà individuale, il confucianesimo non esclude la possibilità di modifiche e miglioramenti, in quanto presuppone l'eguaglianza originaria degli uomini, simili per qualità naturali, diversi per attitudini acquisite: lo studio è il mezzo che permette di trasformare un uomo comune in uomo superiore. Da tale concezione derviva il sistema degli esami imperiali per il reclutamento degli amministratori della cosa pubblica. Gli esami in teoria sono aperti a tutti, ma è evidente che soltanto i membri della classe più abbiente, quella dei proprietari terrieri, potevano dedicare lunghi anni allo studio basato unicamente sui testi della scuola confuciana (un sapere quindi umanistico, non tecnico): per circa duemila anni la stessa classe ha sempre fornito i quadri dell'amministrazione centrale e periferica, ponendosi quindi come effettiva detentrice del potere e come unica depositaria e fruitrice della cultura.
    L'imperatore assume invece il ruolo di supremo mediatore tra ordine naturale e ordine sociale, influenzando con il suo esempio tutto ciò che lo circonda. Se l'ordine sociale viene a essere turbato, è segno che l'imperatore non ha saputo dare il retto esempio, ed egli perde di conseguenza il mandato a governare. Nonostante il succedersi nella storia delle varie dinastie che cadono per "revoca del mandato celeste" in seguito a insurrezioni popolari, la classe dei letterati-funzionari, portatrice dell'ideologia confuciana, rimane il saldo pilastro dell'impero, fornendo di buon grado la struttura portante anche alle dinastie straniere (la mongola Yuan e la mancese Ch'ing), che confermano il confucianesimo quale dottrina ufficiale dello stato.
    Se questo è il quadro del confucianesimo come pratica e ideologia del governo, non va però trascurato l'evolversi del pensiero speculativo della scuola confuciana. Fino al sec. XII essa si limita a "commentari autorizzati" dei testi classici; ma con Chu Hsi (1130-1200) si caratterizza come originale riflessione filosofica (neoconfucianesimo). Prima di lui, la dottrina si era infatti limitata a supporre stretti rapporti tra ordine naturale e ordine morale, senza fornire alcuna spiegazione sistematica. Chu Hsi propone una soluzione metafisica all'antinomia tra i due ordini: tutto l'universo, in ogni sua manifestazione, è il prodotto di due principi infiniti, distinti ma inseparabili, li e ch'i. Li (letteralmente "disegno") può essere tradotto come "principio dell'organizzazione"; ch'i (letteralmente "soffio") come "principio materiale".
    Nonostante gli attacchi mossi da altri pensatori alla teoria di Chu Hsi, in epoca Ming la sua interpretazione dei classici divenne la sola accettata agli esami imperiali e, con il nome di li hsueh (ossia dottrina del principio spirituale), fu eretta a dogma, l'equivalente di una religione di stato austera e puritana. Il filosofo Wang Yang-ming (1472-1529) sostenne invece che ogni uomo deve trovare in se stesso, nella propria conoscenza innata della realtà e non nella realtà esteriore, il principio intelligibile dell'universo. Con l'avvento della dinastia mancese Ch'ing (1644), si manifestò una reazione critica verso il neoconfucianesimo, accompagnata da un ritorno a Confucio, o almeno dallo sforzo di attualizzare il suo pensiero e di riprenderne gli aspetti pratici e sociali. Nel 1905 vennero aboliti gli esami imperiali per il reclutamento dei funzionari, ma l'ideologia confuciana era già stata messa sotto accusa da parte di vari pensatori che lo consideravano un ostacolo alla modernizzazione.
    Il Movimento del 4 Maggio (1919), che segna l'inizio del rinnovamento sociale e culturale della Cina, decretò la condanna di Confucio e del suo pensiero, addebitandogli la responsabilità dello stato di arretratezza e debolezza in cui versava il paese. Negli anni Trenta il regime del Kuomintang tentò un rilancio delle virtù confuciane (Movimento di Vita Nuova) nel tentativo di contrastare l'influenza crescente del marxismo. Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1949), anche in campo marxista è proseguito il dibattito tra chi tendeva a dare un'interpretazione progressista del ruolo svolto da Confucio relativamente ai suoi tempi e chi, invece, considerava la sua dottrina come nettamente conservatrice e reazionaria. La violenta campagna contro Lin Piao e Confucio nel 1972-73 dimostra come siano duri a morire residui e modelli di un'ideologia che ha permeato il pensiero e la pratica sociale cinese per duemila anni.


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